Leggendo Atti degli Apostoli 8,26-40

Attraversare il deserto è impresa ardua, soprattutto quando si viaggia su un carro, soli in un’ora di fuoco, quando i sobbalzi continui fanno contare i sassi sotto le ruote, pur senza vederli nel velluto della sabbia.
Un ritmo scandito, quello dei sobbalzi, che l’eunuco cercava di contrastare leggendo ad alta voce il rotolo della Scrittura. Tornava da Gerusalemme, la città del Grande Re, la città del Tempio dove il tesoro era già impresso nelle belle pietre di cui era ornato… Gerusalemme, la città santa del culto, gli era rimasta impressa dentro. E’ vero, aveva visto mendicanti e supplici ai bordi delle strade, poveri e storpi stesi a terra nella speranza di essere guariti anche già da quel suolo sacro bagnato dal gran tempio. Eppure tutto in Gerusalemme diceva regalità e tesoro. Due parole: re e tesoro, due parole che comprendeva bene perché le conosceva fin da bambino, quando il suo diventare eunuco aveva avuto il senso di servire liberamente la sua regina, Candace, la regina madre come tante altre regine prima di lei, sorelle e figlie di una dinastia bruna e slanciata, dalle gambe lunghe come l’antilope e dagli occhi umidi come la gazzella. Per lui era naturale sentire la regalità nell’aria e la sua ricchezza intrinseca, che risiedeva in centenari cumuli di gioielli, oro, monili, pietre preziose e denari… Bottini di guerra, prede facili portate via a carovane e pattuglie nemiche, tesori consapevoli appartenuti a popoli inconsapevoli e a poveri senza storia.
Il popolo non aveva storia, non aveva ricchezza ma aveva un sesso. Lui, diversamente, figlio del popolo ma presto portato a corte per una sua bellezza naturalmente fine e senza marcature, era stato reso eunuco, privo di sesso, all’età di appena quattro anni. Eppure nella sua adolescenza struggente aveva imparato a guardare bene i due estremi: nella reggia la sua regina, femmina per discendenza e fertilità, dagli occhi blu dietro al velo perenne, e laggiù il popolo misero ma fecondo, che si sposava e figliava in umili capanne, tra piacere e sporcizia, grida di parti e gemiti di godimento. Vite, nascite, morti, unioni… donne forse spesso violate con uomini vicini dal sesso prepotente, ma chiaro.
Questa chiarezza a lui era stata negata in quella sua molle fusione di caratteri, in quella sua voce eternamente bambina, in quei suoi modi in cui anche una rabbia naturale diventava cortesia indotta per serviri i desideri regali. E con la cortesia, negli anni, aveva ottenuto il potere, quello di un uomo naturalmente privo di appetiti, e un potere immenso sui favolosi tesori della regina, diventando il suo primo sovrintendente: compensazione intensa, ma sufficiente?
Se lo chiedeva tornando da Gerusalemme, città ricca di tutto quello che lui sapeva capire, letti di re e spasmi di poveri, sfarzo di oro e sudore di sangue, tempio splendente e vie desolate solo di polvere. Ma quella Scrittura, tratta da Isaia, che teneva tra le mani e leggeva a voce alta, l’eunuco non la capiva… non conteneva i due estremi che ben conosceva, il massimo e il minimo che aveva visto nella città santa. Quella Scrittura era solo minimo, parlava di un’umiliazione così totale da togliere il respiro, ricordandogli solo la sua condizione di uomo mancato. Così, per non sprofondare nel solco noto del suo tormento, l’eunuco leggeva seguendo il ferreo consiglio dei Rabbini: “Chi viaggia e non ha un compagno, legge la Legge.
Aveva gli occhi pieni di deserto mentre leggeva di un uomo come pecora condotta al macello, senza voce, senza possibilità di aprire la bocca, senza un giudizio su di lui che rimettesse le cose a posto, eppure con un’infinita posterità… Una vittima, dunque, ma feconda: questo gli scaldò il cuore e quando lesse, nel passo, di quella posterità la sua voce, alta nella solitudine in cui credeva di trovarsi, si incrinò per la commozione. Per questo sussultò quando gli comparve davanti improvvisamente un uomo che, senza alcun saluto, gli chiese solo: “Capisci quello che leggi?”. Mentre, come bloccato, gli rispondeva meccanicamente di non capire, sentiva invece di voler narrare a quell’estraneo tutto il suo dramma, di quel suo essere uomo senza senso, di quel suo essere pecora da macello, a cui a quattro anni avevano tolto anche la possibilità di essere giudicato e salvato, di uomo solo senza alcuna posterità. Quella pecora, nel libro del profeta, invece ce l’aveva… L’uomo arrivato dal nulla, Filippo si chiamava, lo guardò con sguardo mite e gli sorrise come accogliendo ciò che lui gli diceva solo dentro, in un desiderio di essere capito come mai aveva provato prima. Desiderio di narrarsi, desiderio di vivere una nuova vita, desiderio di ricevere senso nell’unico luogo e nell’unica persona che era il Senso. Quel Gesù, Filippo gli spiegò, Lui era quella pecora, quel Gesù morto crocifisso su un monte della grande Gerusalemme e risuscitato in un suo giardino appena tre giorni dopo. Quel Gesù lo avrebbe reso pecora nuova, feconda e fertile come gli altipiani della sua patria, dove il verde pieno della vegetazione non gli avrebbe più dato alcuna noia accanto al brullo della sua condizione.
Fu così che, alla prima pozza d’acqua, si trovò a chiedere: “Ecco, qui c’è acqua, cosa mi impedisce di essere battezzato?”. E poi, mentre Filippo compiva in lui quel sacro gesto, vedeva dentro l’umile pecora che beveva piano, alla fonte di un’acqua che toglieva per sempre la sete. Più tardi, solo più tardi, avrebbe letto un’altra parola di quel Gesù: “Chi ha sete venga a me e beva… Fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno.”
Quanti modi di essere fecondi da un’unica Acqua aveva capito!