Calipso, o di un’unione di fatto…

E lo trovò [Calipso] seduto sul lido: né mai gli occhi
erano asciutti di lacrime, e la dolce vita si consumava
a lui che piangeva per il ritorno, poiché la ninfa non più gli piaceva;
e la notte invero egli dormiva ma per necessità
nel cavo antro, non volente accanto a lei volente,
e il giorno poi, seduto sulle rocce e sul lido,
in lacrime e gemiti e affanni lacerandosi il cuore
guardava verso il mare inquieto stillando lacrime.
(V,vv.151-158)

L’eroe non la guardava, fissava il lido con lo sguardo vuoto, e a vederlo nessuno avrebbe riconosciuto l’uomo capace di ideare il tranello del cavallo di Troia, di riuscire a sfuggire coi compagni alla furia del ciclope Polifemo, al canto crudele e bellissimo delle sirene, al rollio estenuante di lunghi mesi in mare…
Era un uomo stanco, stanco di parole, stanco forse di una bellezza troppo facile e a portata di mano che non significava più nulla per lui. Un uomo con gli occhi pieni di nulla a fissare l’orizzonte, vinto, senza più aver parole giuste per parlarne: quei sette anni erano stati lunghi, fatti di infiniti momenti belli e brutti, di lenzuola ardenti e di tele che venivano tessute da mani di donna, di donne dee che gli camminavano accanto e a cui non era mai stato abituato prima.
“Parlami, Ulisse, ho bisogno delle tue parole di vento, quelle che conservi dalle tue lunghe navigazioni, voglio che tu mi confermi il profondo desiderio del tuo cuore oppresso!” Così parlava a lui la Ninfa dal multiforme aspetto.
Si scosse l’eroe, come emergendo dall’orizzonte rosato che stava fissando e che si impastava così bene con l’azzurro monotono dei suoi pensieri.
“Lasciami o Ninfa, il volere degli dei è che tu mi lasci ripartire… Il padre Zeus ti ha inviato il dio Hermes ed il comando è stato chiaro: non è dato ai mortali l’unione con donne immortali, perché ciò spesso desta l’invidia degli dei. Lasciami tornare a colei che sposai vergine come un virgulto che sorge in luogo inesplorato e verde, nell’anfratto della roccia arida destando lo stupore del piede del viandante che teme subito di calpestarlo. Così per me Penelope che spero ancora mi aspetti su quel talamo costruito da un unico ceppo nella nostra grande stanza nuziale… Talamo che non si può spostare, come la promessa che le feci quel giorno e lei a me.”
Pianse la ninfa e il suo abito bellissimo sembrava cambiare colore fondendosi con l’oro dei suoi capelli sotto il sole che stava calando. Sapeva che i suoi timbri multiformi avevano subito colpito l’attenzione di quell’eroe quando era arrivato sulla sua isola, sette anni prima, ormai privo di compagni dopo una violenta tempesta che li aveva uccisi tutti, come punizione per aver mangiato le vacche sacre al Dio Sole sull’isola di Trinacria. Solo, dunque, unico superstite del mare per non essere stato anche lui sacrilego per fame, dopo dieci giorni di sofferenze e fatiche, lo ricordava approdato sulle spiagge della sua bella Ogigia, l’isola verde che gli dei chiamavano “l’ombelico del mondo”, perché attorcigliata nel suo nascondimento, perché verdissima nella sua linfa piena che ricordava ai pochi visitatori amanti come qualcuno l’avesse fatta così bella, creatura intatta di Mente Creatrice.
Sette anni erano trascorsi, sette anni per lei di un amore travolgente per quell’uomo rude e fine insieme, dalle mani segnate dai calli delle gomene e dalle parole dolci come il fluire del miele nelle coppe quando lo mischiava con la sua fine ambrosia nella mensa che lei apprestava soltanto per loro due. Quell’ambrosia, cibo immortale di cui si cibava lei, dea del Mare, che ripetutamente nei loro banchetti serali gli offriva in vasellame d’oro assieme al nettare, altra bevanda riservata agli dei: come l’offendeva che lui li rifiutasse, sapendo quasi che assumerli nel corpo significava passare per lui a un altro lido, divenire fisico luogo di un’immortalità donata, dono d’Olimpo che non avrebbe mai trovato suo. Lui era un uomo, rughe nel volto e gesti da guerriero, che le mostrava sempre, con una sfrontatezza quasi sgarbata, di ricordare ancora il latte e le sue capre, ed un formaggio che l’arida Itaca aveva tra i migliori.
Eppure i primi anni insieme erano stati di un amore pieno: lei gli aveva ricostruito lo spazio di una vita a due, dove i suoi giochi di femmina sapiente e la seduzione sicura delle sue promesse gli avevano tolto la smania del ritorno… A tratti sì, al colmo dell’amore sorgeva il suo sconforto, come una nostalgia velata di passato, ma con destrezza la dea trascurava ogni discorso amaro che egli faceva mentre narrava la voglia del ritorno, delle fattezze del bruno di sua moglie e delle carni così tenere del figlio.
E così lo avvolgeva in giorni uguali, mentre passavano mesi radunati in cicli e messi, mentre passeggiavano tra boschi tanto vari di pioppi, ontani e cipressi , tra tante viti gravide di grappoli ed un silenzio che sempre si levava, rotto solo dal verso degli uccelli che il mare indolente portava alla risacca. Ma il tempo non giovava alla mente dell’eroe che si perdeva dentro a quei meandri e, come a chiazze, ricostruiva il suo passato, rabbioso nelle lunghe veglie delle notti, stanco di un amore che si ripeteva, ubriaco di una dolcezza che non voleva più. Calipso sapeva addormentarlo come in uno sposalizio strano, fatto senza una promessa, moglie comparsa come per incanto ma non trovata dentro il suo passato, nei luoghi noti dove era cresciuto. Calipso, bellezza luminosa capace di togliere la vista, senza un progetto di costruzione nuova: solo loro due, corpo dentro a un corpo, mente a fior di mente ma il cuore, quel cuore che cresce da lontano, dov’era il cuore dell’amore? Quello che nasce come cosa cara e resta fisso in una fedeltà che spesso pare offuscare la freschezza a chi lo guarda di fuori dalla porta.
Le ninfe tessevano il suo lino nell’antro dove lei regnava, le spole correvano sui telai… le ore scorrevano in ordito e i fili creavano le trame. Rabbioso l’eroe si tratteneva, guardava il lavoro delle loro mani…. Pensava a quelle di Penelope che nella sua reggia tessevano una tela, diversa per peso e per inganno. Non poteva amare quella donna, o dea, che gli si proponeva vicina come una nuova sposa: voleva rivivere una storia cosparsa di peso tutto umano, legato al crescere di un figlio, segnata dal peso di regnare e spesso di veder morire… Sapeva di essere crudele ma voleva risentire il dolore tanto pieno di un servo malato da curare, dei suoi guerrieri caduti sul campo di battaglia, o di fedeli amici la cui morte lo straziava dentro. Pensava a Ogigia, il regno del piacere, in cui si era illuso di vivere un’esistenza nuova, unione venuta da quel caso che lo rendeva sposato soltanto per naufragio… Ogigia, la terra dell’oblio, che copriva la gioia di sapere che serviva trovarsi responsabile di cose a volte troppo note che perdono la voglia del piacere, se solo si scorda cosa sono…
Così la ninfa era uscita dalle sue stanze, il dio Hermes aveva già parlato: l’eroe doveva ripartire, inutile mettersi contro il volere dell’Olimpo e, in fondo, anche contro la scontentezza di un uomo.
Allora lo aveva raggiunto, nel tempo della sua solitudine, di fronte a un mare troppo vasto:
“Eroe, preparati una zattera! Posso offrirti del legno e della corda per il tuo ritorno che tanto stai bramando!”
“O Ninfa” le disse sopraffatto “ti ringrazio di rendermi al mio regno, alla mia storia, alla mia sposa ed a mio figlio che ho lasciato quand’era ancora in fasce..”
E lei, volgendogli le spalle:
“Ulisse, almeno mi hai amata, una volta, nel lembo dorato di una notte nascosto in questi lunghi anni? In un’alba da dita rosa carne o in un bosco dal verde dell’ontano?”
“Calipso, io torno a chi appartengo e che forse non mi sono dato… Ma certo tu sei destinata a uomini di ben più alta stirpe di me che sono re di un regno che è pari ad un villaggio di umili e poveri pastori, di terre da greggi seminate… L’unione che forse tu volevi, sembiante di nozze coronate, l’avrai con qualche altro eroe che solchi la tua terra raggiante. Con lui potrai sentirti donna e crescere l’idea di avere un figlio in ventre che sa di esser divino, il tuo che nasce dall’Oceano.”
Gli disse la dea che sa di mare: “Ulisse, io solo so donare la forma di una bellezza varia e vesti dal tono multiforme. E’ vero, ricerco il fondo dell’amore, ma non la sostanza delle nozze, del mondo che è noto a voi umani… Ti lascio a lei che là ti aspetta e al vergine vitigno che hai piantato.”
Così fu quel loro saluto, in bocche che non sapevan dare, ormai da troppo tempo, che fiato ad aliti di vento, estranei a quel loro parlare…