(Leggendo Atti degli Apostoli 16,11-15)

La casa si era appena svuotata, i miei ospiti erano già ripartiti… Mi ero subito ritirata di sopra, nelle mie stanze, avevo bisogno di pensare, di stare sola, quel saluto era stato difficile per me, avevo il pianto in gola. Mi guardai allo specchio, o meglio guardai il lampo azzurro dei miei occhi riflettersi in quella superficie fedele che rimandava il guizzo consueto che conoscevo in me, quello che avvertivo sprigionarsi ogni volta che capivo a fondo qualcosa, che un mio affare andava veramente a buon fine, che qualche persona mi faceva sentire stimata e desiderata…
Ma non mi spiegavo perché lo rivedessi in quel momento: ora provavo solo il profondo dolore per essermi separata da Paolo di Tarso e dai suoi compagni. Ricordavo bene il primo momento in cui lo avevo visto scendere tra noi donne e come ci aveva spiegato il Vangelo: da quel momento la mia vita era completamente cambiata, quell’uomo aveva avuto il pieno potere di trasformarla…
Il potere: ecco riapparire l’oggetto più profondo delle mie riflessioni, fin da quando ero bambina, e Paolo infatti era un “uomo di potere”! Ecco perché forse avevo inteso subito così bene il suo linguaggio, colto e raffinato, ma al tempo stesso profondamente ancorato al reale.
Così pensavo anche quella mattina di sabato, sulle rive del fiume Gangite, dove ci eravamo riunite come sempre noi donne, accogliendo l’arrivo di Paolo e dei suoi compagni: Luca, Sila e Timoteo.
Non avevamo una vera sinagoga a quel tempo, ma per noi “timorati di Dio” o “credenti in Dio”, cioè pagani neo-convertiti, come ci chiamavano con sospetto i Giudei osservanti, le rive di quel piccolo fiume ridente andavano benissimo come casa di preghiera a cielo aperto. Così Paolo lo aveva saputo e ci aveva raggiunto là dove stavamo svolgendo le preghiere di rito e le abluzioni prescritte. Cominciò a parlare, dopo averci rivolto un saluto straordinariamente caldo ed accogliente, ed io entrai in una dimensione tale che a fatica potrei cercare di ripercorrerne il filo ora. Prestavo un’attenzione tesa e coinvolta alle parole di quell’uomo, al suo messaggio di fede e di speranza che annunciava la Buona Notizia, la Salvezza che proveniva da Gesù di Nazareth, il Messia crocefisso e risorto di cui tanto avevamo già sentito parlare. Ma lui ne parlava in modo nuovo e il suono della sua voce mi condusse ad una profonda immersione nella mia vita, nella mia infanzia, nel mio modo appunto di esercitare un potere: il potere di vivere e di far vivere altri a me affidati.
Ero una commerciante di porpora, colorante tanto prezioso da essere chiamato comunemente soltanto “il colore”… Era il segno appunto della regalità, della sacralità, l’ emblema umano e divino di un dominio esercitato su questa terra (perfino i senatori romani ne portavano traccia sui bordi delle loro toghe e ogni imperatore ne aveva ricami preziosi sulla propria tunica).
La porpora: la mia materia, soprattutto quella che avevo “ereditato” da mio padre, anche lui commerciante di questo prezioso pigmento. Non ero originaria della bella città di Filippi che oggi abitavo, dove avevo una grande casa con tanti servi e botteghe per comprare e vendere, ma la mia patria era invece Tyatira, una città dell’ Asia Minore. Non era una località sul mare, era poco distante dalle grandi città di Pergamo e di Sardi, e la sua principale attività era proprio la produzione di questo colorante e il suo commercio. Dal mare che distava alcune centinaia di miglia arrivavano grandi carovane cariche di ceste di preziosi molluschi appena pescati, i murici, prestamente tritati in grandi vasche scavate fuori dalla città, dove la polpa dei piccoli animali rilasciava un succo violaceo, prezioso più dell’oro, che sarebbe diventato indelebile tintura di dominio. Giorni e giorni a macerare, anche rilasciando un odore sgradevole, di cui noi bambini non ci curavamo troppo, curiosi di andare ad osservare il lavoro di quegli artigiani instancabili e curvi, che trasformavano panieri e panieri di conchiglie, dono del mare, in lunghe pezze di seta o di lana dal colore più bello che avessimo mai visto: la porpora. Se chiudo gli occhi ancora oggi io vedo solo quel rosso, ma non lo vedo compatto, lo vedo a chiazze…. Il gioco, infatti, per noi bambini era stare ad osservare come da quella poltiglia violacea e spesso maleodorante emergessero le tante bolle d’aria della fermentazione, come segnali che un’altra goccia di vita era stata spremuta e poteva salire alla superficie…. E dopo poi, quando quel succo strano veniva filtrato in altre vasche, assistere all’immersione dei panni grezzi che quasi mai venivano colorati subito uniformemente la prima volta. Bellissimo osservare come uscivano, con quali imperfezioni e disegni fantastici dettati dal caso… Come quando si fa il gioco di osservare i disegni delle nuvole, anche in questo caso da bambini cercavamo figure di uomini, animali, divinità… in quelle imperfezioni casuali che un secondo, terzo, quarto bagno avrebbero impietosamente cancellato. Lì avevo iniziato a pensare al potere degli uomini: nasceva dunque in modo così imperfetto? C’era bisogno di tanta cura e capacità di dominio perché venissero “cancellate” le esitazioni di un’anima, forse non sempre troppo avvezza a decidere della vita e della morte degli altri? Chissà se tutti coloro che avrebbero indossato il prodotto finito avrebbero avuto un cuore così temprato, simile all’uniformità del colore impassibile del loro abito…
Da bambina ancora non lo sapevo, ma mi facevo simili domande molto diverse dai mondi delle mie compagne di gioco… Mio padre, mio padre: ero certa che mi avrebbe capita se gliene avessi parlato, ma me ne mancava il coraggio. Lo amavo di un amore travolgente, amavo tutto in lui: il suo odore di salmastro per i tanti viaggi che lo riaccostavano così spesso al mare, le sue unghie sempre violacee per aver toccato spesso panni ancora umidi e averli caricati anzitempo nel suo bagaglio per partire anticipatamente e avere un vantaggio sui concorrenti, la sua espressione realizzata e paga quando tornava carico di denaro e di merci esotiche barattate… Mio padre conosceva bene il potere come ambizione di dominio, ma soprattutto ne aveva scoperto la faccia nascosta e impegnativa: quella del prendersi cura dei suoi sottoposti, della sua grande famiglia, dei tanti lavoranti che prestavano servizio nella sua grande bottega e dovevano mangiare ogni giorno. Il potere era “a macchie”, mio padre me lo aveva spiegato, era esigente il potere, spesso chiedeva di sacrificare il proprio io a fronte di proteggere e custodire coloro di cui in fondo si è solamente responsabili, non padroni come aveva invece creduto all’inizio. Da mio padre la conferma di tutto questo, da mio padre la capacità del mio ritrovarmi una donna sola e padrona della mia attività commerciale in una città straniera, la greca Filippi, da mio padre la possibilità della mia diversità di donna volitiva e “stranamente” potente. Cercavo, ascoltando Paolo di Tarso, uno struggente aggancio a mio padre, alla capacità che un uomo ha di dominare se stesso e gli altri. Conoscevo bene la sua storia, da tanti descritta a tinte forti: violento persecutore dei cristiani perché colto giudeo osservante, convertito perché sbattuto a terra da cavallo per opera della potente mano di Dio, cieco per ritornare a vedere dopo un lungo tempo di umiliazione, ora deciso annunciatore del Regno di Dio sulla terra e della bellezza universale di Gesù Cristo, il Figlio…
Paolo: lo ascoltavo, il cuore mi andava all’impazzata e sembrava mi si dovesse squarciare nel petto: avevo capito cosa cercavo, cercavo tracce di un potere domato, o meglio consegnato ad un Altro.
Questo, del potere, non lo sapevo ancora: come appariva una tunica porpora quando doveva essere ceduta o per qualche motivo non veniva più indossata o, meglio, doveva esser portata diversamente? Paolo, uomo di potere, mi aveva insegnato con il suo tono di voce, l’espressione sofferta del suo viso, le poche rughe per dire tutto, come si poteva piegare la volontà del proprio io, rimanendo forti, ma consegnandosi interamente ad un Amore più grande che, da quel momento in poi, avrebbe guidato ogni passo e ogni desiderio della propria persona. Alla fine, come emergendo da un lungo sogno che non aveva tolto alcuna intensità alla mia capacità d’ascolto del suo messaggio, gli chiesi il battesimo, il vero bagno in vasca di Porpora, per me e per gli uomini della mia casa di cui avevo cura, che non erano ormai più solo servi… Gli chiesi anche di venire ad abitare nella mia casa assieme ai suoi compagni, misi a loro disposizione tutto ciò che di meglio avevo, li costrinsi ad accettare con l’unica autorità che avevo ormai a mia disposizione: quella di chiedere se mi avessero giudicata degna di fede… Il porpora mi assisteva, come colore di sfondo, non più solo segno di regalità, ma soprattutto di ciò che intendevo fare da quel momento in poi: dare la mia vita fino a versare il sangue, se fosse servito, per Gesù Cristo…
Davanti allo specchio, in quella sera della loro partenza, ricordavo ogni particolare ma soprattutto mi rendevo conto che già da tempo il lampo azzurro di quei miei occhi era sostanza, nata da sempre in quelle pozze piene di vita, da cui imparavo che consegnarsi vuol dire perdersi senza sconfitta.