Mi sono imbattuta in questi giorni “casualmente” in una particolare immagine di Madonna della Tenerezza, attribuita ad Andrea Mantegna, e ormai universalmente riconosciuta come opera autentica di quello che possiamo senz’altro definire uno dei più grandi rappresentanti dell’arte italiana del Quattrocento.
E, come spesso avviene, questa immagine, con una storia molto particolare, mi ha portato a fare alcune considerazioni sul Natale ormai imminente. Come può accadere quando si conosce una persona nuova, che emerga una certa curiosità sulle sue origini, e sulla sua appartenenza, questo può avvenire anche per un’opera d’arte perchè , anche in questo caso, saperne di più fa luce sul profondo significato iconografico e stilistico che essa può avere. Quest’opera dunque, appartenente da sempre a collezioni private, ha avuto un lungo iter nei secoli da un collezionista all’altro fino a giungere al dono di una esposizione perenne al pubblico, da parte dell’attuale proprietario, al Museo Civico Eremitani di Padova nel 2006. L’hanno chiamata la «Madonna della tenerezza», per la suggestiva bellezza e l’incanto che promana dalla dolcezza di gesti tra la Madonna e il Bambino i quali, in un delicatissimo abbraccio, vivono entrambi di uno struggente momento “guancia a guancia” dove pelle su pelle avviene un contatto di anime che incomparabile per intensità espressa. La storia di questo dipinto poi, come si evince da un carteggio d’epoca di ormai certa attribuzione al 1491, è quella di un secondo dono riparatore che il Mantegna stesso fa al suo Marchese Francesco Gonzaga, dopo che quest’ultimo ha regalato ai Signori di Milano la prima “Madonna della tenerezza” che già il pittore gli aveva dipinto. E’ così che il Mantegna stesso scrive di un “quadretino” che veniva presentato al Gonzaga il 21 dicembre 1491 e che si deve con tutta probabilità identificare la Madonna della tenerezza. “Quadretino” di appena 20 cm di lato, questa Madonna con bambino esce dalla pergamena finissima con una tecnica a sbalzo di straordinaria forza plastica, ma in realtà è un disegno a punta d’argento con lumeggiature d’oro e il fondo è dipinto a tempera a colla e oro. Stilisticamente balza agli occhi la differenza cromatica tra figura e sfondo, la prima monocromatico e quasi marmoreo complesso nel suo chiaroscuro curatissimo, il secondo paesaggio colorato e realistico nella sua volontà archeologica evocativa (una sorta di trompe-l’œil dove si riconoscono l’Arco dei Gavi, il Colosseo e un sarcofago allora in Santa Maria Maggiore a Roma (nel 1491 Mantegna era da poco tornato a Mantova dal soggiorno romano). Sappiamo bene che la passione per il trompe-l’œil non è nuova nel nostro artista, che ne viene quasi considerato l’inventore nel Rinascimento italiano, con celebri esempi come l’occhio in alto nella Camera Picta degli Sposi per la Corte dei Gonzaga a Mantova, dove un occhiello di cielo azzurrissimo sfonda la parete e vede affacciarsi come ad un balcone dame di corte e perfino un moro col turbante… Cosa vuole dirci in questo caso dunque questa volontà illusionistica del pittore, che mette dietro alla sua “tenera” Madonna delle rovine romane? Significa che ci troviamo davanti ad una statua eternata nel suo valore evocativo, la quale si inserisce in una storia di “bellezza e tradizione” antiche? O piuttosto la volontà di contrappore ciò che di più realistico il Mantegna ami e conosca (si pensi al suo entusiasmo per le rovine di epoca classica romana e di come fossero materia di nutrimento artistico per tanti artisti dell’umanesimo italiano e non solo…), affiancando per opposto rovine che dicono vita reale passata e ora di nuovo presente (e qui usa colore) ad il monocolore invece del complesso simil-marmoreo che eterna il valore, non solo religioso, della Maternità di Maria, ma del suo messaggio: la sacra maternità di Maria riassunta nella tenerezza di un abbraccio al suo piccolo appena nato. Ogni madre infatti che ne abbia fatto l’esperienza, conosce bene l’inesprimibile tenerezza del primo contatto col bimbo appena nato che le viene posto tra le braccia per la prima volta. Altra icona della tenerezza, penso, sarebbe stata forse diffcile da trovare, anche per il Mantegna. E qui mi pare evidente un’assonanza col momento del Natale, certamente di non molto precedente a quell’abbraccio che il pittore raffigura così bene: Gesù nasce e, come ogni madre, Maria se lo porta al seno e gli avvicina la guancia per ritrovare quel contatto estremo che solo il portarlo dentro nove mesi sembrava darle prima. Umano, umanissimo gesto, se vogliamo molto comune per la donna, di sempre… Il Natale dunque, colto qui in questa sequenza cronologica che mi piace pensare immediatamente successiva allo sforzo faticoso della nascita come una sorta di gioia “riparatrice” del dolore provato, emerge ancora per noi rappresentato come un simbolo reso in “altro colore” pur nei tratti estremamente realistici dei contorni (i bei visi curati, i piedini paffuti del Bimbo, il panneggio credibile del manto… posture delicate ma verosimili…). Ma se è simbolo per Mantegna di tenerezza, di cosa è rimasto simbolo nel nostro tempo, in cui tanto potremmo dire di vero, ma anche di trito e ritrito, sullo svuotamento del senso religioso cristiano sia per un presunto rispetto di altri credi religiosi accanto a noi o per la laicizzazione consumistica di questa festa tutta “occidentale” ormai?
Io ho provato a rispondere, sostituendo la parola “simbolo” con quella di “icona, immagine”, perché per un credente la celebrazione massima dell’Incarnazione di Dio per amore non può essere ridotta ad una simbologia immateriale e, affermarlo, suona quasi come una sorta di bestemmia “teologica”. Eppure il Natale per me, oggi, rimane come scomoda e trasgressiva immagine di fragilità assunta e accolta fino in fondo per amore!
Se esiste lo scandalo della Croce, di un Dio che accetta di morire per amore come l’ultimo dei malfattori, è esistito prima lo scandalo di un Dio che nasce esposto a mille pericoli, dopo un lungo viaggio, con tanti disagi, ma soprattutto con una fragilità umana che subito viene adorata, da pastori e Magi… Ed è qui lo scandalo che noi cristiani non dobbiamo aver paura di gridare, perché il nostro mondo ce lo vuole rubare addolcendo il messaggio e trasformando questa festa nella saga sdolcinata dei buoni sentimenti (per il mondo che vuole laicizzarla a tutti i costi) o nella festa di annacquati valori condivisi che non sono più ben identificabili ( per un millantato dialogo “interreligioso” che, non essendo vero, non porta a nulla!),
Il Natale qui sa di vita, come per il Mantegna sa di vita il suo tenero abbraccio monocromatico su sfondo realistico… Insomma il Mantegna sembra dirci: aggiungiamo quella della tenerezza alle tante statue bellissime del nostro repertorio classico, per farne un caposaldo culturale, prima che religioso… Tutti possiamo essere teneri così, sembra gridare questo quadro! Io aggiungerei: tutti noi possiamo essere fragili così, e per questo iniziare ad integrare il nostro limite, non per bypassarlo o sublimarlo stordendoci di lustrini e lucine, ma capendo che possiamo esserne fieri perché per primo Gesù, nato a Betlemme tanti anni fa, si è fatto fragile per farci forti… E mi piace chiudere con una frase colta in una conferenza di Enzo Bianchi ascoltata molti anni fa: “State attenti a non andare verso il povero in quanto povero, ma in quanto uomo”! L’augurio dunque in questo Natale sia quello di ricordarci che Dio è venuto a noi “poveri” uomini, in quanto uomini e non in quanto poveri. Siamo fieri, dunque, della nostra povera, tenera fragilità!
Buon Natale!