La Pietà Rondanini viene considerata il testamento artistico di Michelangelo, il quale morendo a ottanta e passa anni, la lascia incompiuta… Prima particolarità: un uomo che, nella sua scultura, aveva inseguito tutta la vita la poetica del “non finito” come massima espressione della perfezione scultorea, deve lasciare “non finito”, incompiuto, il suo testamento non per scelta, ma per cause di forza maggiore, la sua morte.
Così affida ai posteri un capolavoro di non finito, non una summa di levigate tecniche e perfezioni da emulare, ma una sofferta ricerca di bello e di bene che trova proprio nella materia grezza il suo senso primo: racconta le sue crepe, prima che i suoi successi raggiunti.
Cultore ossessionato dal tema della Pietà che gli arriva dal Medioevo e soprattuto da Oltralpe, Michelangelo lo insegue tutta la vita e muore ancora interpretandolo… E così egli crea varie opere sul tema: prima tra tutte la Pietà Vaticana (1497-99), perfetta e levigata, poi una Pietà Bandini del 1550 (che si ruppe per un’imperfezione del marmo provocando l’Ira dello stesso che tentò di distruggerla a martellate, lasciandola poi abbandonata) e infine la “nostra” Rondanini, iniziata nel 1552, ripresa nel 1554 e lavorata fino al 1564, anno della morte dell’artista…
La prima del ’52 era iconograficamente molto “strana”, perchè prevedeva solo una madre ritta in piedi, lontanissima dalla classica Vergine vaticana seduta con figlio in grembo, che doveva sostenere il Figlio solo sotto le ascelle in uno sforzo alquanto improbabile…nel ‘ 54, riprendendola, egli fa un’operazione di rimpasto tecnicamente magistrale e teologicamente commovente… Dal corpo della madre ricava il Figlio, mantenendo solo le gambe della figura precedente, e dalla spalla sinistra e dal petto del vecchio corpo di Cristo trova il modo di ricavare il nuovo corpo di Maria… Così, sia ontologicamente che tecnicamente, questa pietà è tutta abbraccio verticale di corpi fusi che si partoriscono l’un l’altro…. Sembra echeggiare in questa pietra il sublime verso di Dante “Vergine madre, figlia del tuo figlio” (Paradiso, XXXIII).
Una Vergine che qui sorregge il Figlio in piedi, un figlio che sembra, secondo alcuni critici, quasi sfuggire dall’abbraccio in un Corpo che non si fa trattenere, scivolando via da un amore che pare già favorirne lo slancio di resurrezione… Sì, perché quella madre e quel Figlio si mostrano tesi in un “estote parati” di fronte alla resurrezione, pur essendo ancora ritti insieme nella morte e nel dolore vivo di un cuore materno accasciato.
In concreto, poi, due direttrici ad arco delimitano idealmente la composizione, e la chiudono in un uovo- grembo: il sepolcro in cui staranno “insieme” tre giorni o il grembo in cui si sono generati a vicenda, in questa diversa coppia madre-figlio?
E il tutto in un gioco di finito-non finito, di levigato e ruvido, addirittura di un braccio abbandonato e “mozzato “di un primo Cristo, tralasciato poi da Michelangelo non soddisfatto che doveva ritrarlo più vicino per creare un viso a viso con la madre, lasciando due volti abbozzati, ben lontani dal viso bellissimo e rifinito della giovanissima Maria della Pietà di San Pietro. Qui solo tratti abbozzati, confusi, per essere prestati al dolore di ogni madre e di ogni figlio, di ogni tentativo di rapporto ravvicinato e per questo faticoso, di ogni sollecitazione tremenda che la vita può offrire. Qui il massimo della sofferenza, una morte in croce, e il resto tutto a seguire, ma risignificato da questo…
Come ogni spazio creativo della relazione che trova nell’incompiuto, nel non finito la sfida di ogni vera costruzione di dialogo e di contatto, perchè solo ad uno spazio aperto viene lasciata la dignità di una nuova, reciproca costruzione, in fieri, perchè umanamente sempre solo “abbozzata”.
Al personale scalpello la tensione a levare spigoli e a levigare parti singole e comuni.
E Michelangelo ancora sembra sussurrarci: uno spazio completamente levigato rimane una “bella” perfezione umana, ma possibile?